Last Updated on 12 Marzo 2021 by Eleonora Bolsi
Dipendenza da cibo, fame vorace, attacchi di fame.
E’ possibile che l’industria alimentare sia in parte responsabile, manipolando le nostre scelte a tavola, di questi fenomeni?
Lo afferma il giornalista americano Michael Moss, premio Pulitzer, che da anni conduce inchieste approfondite sul marketing alimentare e sul ruolo delle industrie nella nostra salute. E’ celebre per il libro “Grassi, dolci, salati”, tradotto anche in italiano.
Moss ha pubblicato un nuovo libro dal titolo “Hooked: Food, Free Will, and How the Food Giants Exploit Our Addictions” (“Presi all’amo: il cibo, la libertà di scelta e il modo in cui i giganti alimentari sfruttano le nostre dipendenze”, traduzione mia).
In questo libro spiega come la nostra sensazione di fame venga manipolata dall’industria alimentare.
A fianco di cose che molti già conoscono, il fatto per esempio che molti prodotti influiscono sul nostro centro di fame e sazietà grazie al combo di zuccheri, grassi, sale e additivi, rendendoci difficile saziarci, in questo libro Moss si spinge oltre.
Accusa infatti l’industria di arrivare all’omissione di alcune informazioni pur di vendere i propri prodotti.
E di avere sfruttato persino la pandemia del Covid per aumentare i propri profitti.
COME L’INDUSTRIA ALIMENTARE MANIPOLA LA NOSTRA SENSAZIONE DI FAME
Uno degli aspetti iniziali su cui il giornalista si sofferma è la trappola della varietà alimentare.
Sarà capitato a molti, scrive, di arrivare al supermercato per comprare dei cereali da colazione… e di trovare centinaia di proposte diverse che ci mandano in confusione. Quello che però la varietà alimentare genera non è solo incertezza sull’acquisto. Immagini di prodotti con gusti diversi stuzzicano la nostra fantasia, facendoci venire l’acquolina in bocca al pensiero di quante cose si possano aggiungere a dei semplici cereali. Cioccolato, frutta disidratata, nocciole, glasse, supercibi liofilizzati, miele, caramello, e persino pezzi di caramelle. Per non parlare di differenti colori e forme. Tutto questo solletica la nostra voglia di assaggiare più varietà.
L’altro aspetto che si evince dal libro è che le etichette sarebbero tutto fuorché trasparenti
Quanti di noi sanno quali additivi si nascondono dietro i codici alfanumerici?
Sapremmo la differenza tra E325 ed E199 leggendo l’etichetta? Che ne sappiamo di come vengono lavorati gli ingredienti di base, quali trasformazioni subisce la materia prima per ridurre i costi di produzione?
Anche il consumatore più attento che legge le etichette non può conoscere a memoria tutte le sigle degli additivi. E si stupirebbe di sapere che i manager delle grosse aziende alimentari non consumano i loro stessi prodotti. Moss cita il caso della Philip Morris, che produce non solo sigarette, ma anche i famosi biscotti Oreo. Fa stupore, ma chi lavora ai vertici preferisce fumare una sigaretta che non aprire un pacco dei propri biscotti.
Come si sfrutta l’evocazione per scatenare la sensazione di fame.
La pandemia da Covid con le sue quarantene ha fatto sì che molte persone si rifugiassero nel cibo. L’acquisto di generi alimentari, online e nei negozi fisici, è notevolmente aumentato con l’emergenza Coronavirus. Le industrie alimentari hanno sfruttato il senso di impotenza e frustrazione delle persone, puntando sul potere evocativo dei ricordi di infanzia, della casa come focolare domestico, degli affetti cari.
Non è un caso che di recente spesso abbiamo visto formule pubblicitarie che evocano il fatto in casa, il genuino, la tradizione a tavola, la comodità, la convivialità e l’accudimento. Si tratta, spiega Moss, di un trucco per vendere di più, agendo sulla sfera emozionale che è legata a stretto giro a quella della fame. D’altronde, le aree del cervello cosiddetto limbico sono le stesse, sia per le emozioni che per il cibo. I pattern neurali si basano insomma su una mappa del cervello comune. E questo chi produce alimenti lo sa bene.