Last Updated on 7 Giugno 2023 by Eleonora Bolsi
Avrete sentito parlare di Nutri-score, una proposta di classificazione degli alimenti industriali, anche di estrema qualità, per esempio Dop, che si basa su un punteggio tramite lettere, dalla A alla E. La A rappresenta un alimento a elevato valore nutritivo, la E pessimo, praticamente junk food.
Avrete anche sentito dire che l’Italia si è opposta a questo sistema, il che ha suscitato svariate polemiche e accuse di protezionismo. In realtà, abbiamo ragione noi italiani a non volere questo sistema, e oggi vi spiego perché.
CHE COSA E’ NUTRI-SCORE
Nutri-score, come detto, è un modello che, basandosi su una classificazione per lettera, assegna un valore nutrizionale, quindi uno score, un punteggio, a ogni alimento prodotto industrialmente. Prodotto industrialmente non significa per forza cattivo, significa che questo sistema non viene messo per esempio per frutta, verdura o altri alimenti non modificati e non lavorati.
Può essere applicato a tutto il resto, dai biscotti alle zuppe fino ai formaggi.
Oltre alle lettere, il sistema assegna un punteggio per colore, tipo semaforo: per capirci, alla lettera A, ovvero massimo valore nutrizionale, corrisponde il colore verde, come dire “via libera”. Questo sistema di colore viene definito “traffic lights“.
Detto così, niente di nuovo e in apparenza niente di malvagio.
Molti Paesi hanno adottato simili sistemi di classificazione, come l’Australia e la Gran Bretagna. L’obiettivo è educare il consumatore a scelte più sane quando va a fare la spesa al supermercato.
Certo, ci sarebbe la questione sul giudicare i cibi buoni e cattivi, che può dare adito a polemiche, così come l’idea di eterodirigere le scelte del consumatore, come se non fosse in grado di capire da solo cosa compra. Ma lasciamo perdere questi problemi. Per ora.
Il Nutri-score è stato messo a punto in Francia dalla Equipe de Recherche en Epidémiologie Nutritionnelle (EREN). In Europa ha ricevuto un buon riscontro, e alcuni Paesi l’hanno adottato. Chi adotta questo sistema decide quindi di utilizzare questa etichetta nei propri prodotti, ovvero di riportarla sulla confezione.
I PROBLEMI CON NUTRI-SCORE
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Nutri-score è innanzitutto un sistema che considera l’alimento dal punto di vista dei valori nutrizionali, e non della qualità.
Questo è già un problema, perché un alimento non può essere visto solo come grassi, proteine e zuccheri, ma è importante sapere come viene realizzato e di quali ingredienti è composto. Se io per un alimento ho tantissimi additivi, aromi artificiali, eccetera, voglio sapere qual è l’effetto di questi additivi sulla mia salute, e non dovrebbe interessarmi solo quanti grassi apporta. Nutri-score quindi non fa differenza tra un wurstel realizzato con carne separata meccanicamente e una vaschetta di prosciutto San Daniele.
Per intenderci, quando scrissi l’articolo sulle zuppe migliori in commercio, mi accorsi che la zuppa Knorr in barattolo, a lunga conservazione e con una lista di ingredienti molto lunga tra addensanti e conservanti, aveva un punteggio molto superiore alle zuppe fresche che troviamo in banco frigo: scadenza limitata, unici ingredienti verdure fresche, acqua, sale e olio di oliva. La spiegazione di Nutri-score era che la zuppa Knorr che puoi tenere in dispensa per anni ha più fibre, grazie all’aggiunta di farine e fecole.
Non ci vuole insomma un genio per capire che il sistema dei soli valori nutrizionali non è abbastanza per etichettare un alimento come “buono” o “cattivo”.
Il tutto ovviamente viene etichettato grazie a un algoritmo.
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Dunque il buon senso del consumatore viene meno, è un algoritmo che ti dice se qualcosa è sano o no.
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Un altro problema è quello della disparità, sollevato da alcuni.
In sostanza, si nota che gli alimenti prodotti in Francia hanno un voto migliore di quelli prodotti in altri Paesi. Questo ha portato all’idea che il sistema sia stato spinto anche per valorizzare il mercato alimentare francese.
Non ci sono dati a sostegno di questa ipotesi, per cui accantoniamola e vediamo su cosa si basano obiettivamente le critiche al sistema Nutri-score.
NUTRI-SCORE: I PARERI CONTRARI
Non è vero che solo l’Italia si è schierata contro il Nutri-score, eche quindi la scelta italiana sia quella anti-francese tout court, in senso protezionista e conservatore del made in Italy. Esistono ostacoli oggettivi ed eventuali conseguenze negative. In Germania, uno studio ha dimostrato che un pasto buono per Nutri-score non lo sarebbe mai per un nutrizionista: cotoletta, patatine e bevanda a zero calorie.
In Belgio, Paese che ha aderito all’iniziativa francese, scienziati, nutrizionisti, medici e consumatori hanno creato la No-Nutriscore Alliance.
L’ostacolo normativo.
Da un lato, l’UE vieta l’obbligo di usare simili etichettature. Ovvero, è la sola lista degli ingredienti a essere obbligatoria. Neanche quella dei valori nutrizionali lo è. Dall’altro, però, vogliono introdurre l’obbligo di un simile sistema di etichettatura in cibo buono/cattivo nei prodotti europei. Quindi la direzione dell’Unione Europea è di prendere in considerazione etichette aggiuntive per tutti i prodotti alimentari commercializzati.
Già questo solleva alcuni dubbi: prima no, ma in futuro sì. E secondo quali criteri dovrebbe avvenire questo cambiamento non si sa.
Favorisce le multinazionali
Come faranno le piccole ditte, i piccoli produttori a mettersi in regola, non avendo le stesse opportunità delle grosse aziende è un altro problema. Se io sono una piccola ditta che distribuisce i propri prodotti solo in alcune zone di Italia, rischio di soccombere di fronte alle multinazionali se non mi adeguo. Ma per adeguarmi devo sapere come etichettare i miei prodotti, e magari non dispongo di un team di consulenti marketing di sviluppo e strategia, né di un team di legali. Insomma, io piccola ditta non ho la struttura e le possibilità della Nestlé.
Ma c’è un altro fatto: il locale verrebbe sfavorito anche perché se ci si abitua al mindset delle etichette “educatrici”, si scoraggia la vendita dei prodotti locali. Una caciotta, un salame genuino, dei biscotti da latte. Il nuovo mindset indurrebbe il consumatore a snobbare quello che è venduto dai piccoli produttori al di fuori delle grosse distribuzioni.
Esiste un problema di qualità e origine dei prodotti.
Facciamo un esempio con la categoria dei formaggi. Un latticino spalmabile marca Eurospin è considerato A perché basso in grassi saturi e basso in zuccheri. Il Parmigiano Reggiano invece è bocciato, con voto D, perché ha grassi saturi. Ma c’è una differenza qualitativa enorme rispetto ai due: il primo di formaggio non ha niente, il latte è di origine sconosciuta e può essere persino in polvere. Il secondo ha filiera e materia prima regolamentate: è vero che ha alto contenuto di grassi saturi e sale, ma perché è un formaggio stagionato.
Ha anche un valore molto più alto di vitamine e sali minerali, mentre lo spalmabile rasenta lo zero, ma non essendo questi dei macronutrienti non vengono presi minimamente in considerazione. Capite poi che io non mangerò mai 100 grammi di Parmigiano ma mangerò 100 grammi di formaggio spalmabile: questo perché il primo “rende” di più. Posso mangiarne meno ma nutrirmi di più e meglio rispetto a un etto di formaggio spalmabile che non so neanche come viene prodotto. Se quindi mezzo chilo di Parmigiano può durarmi più di una settimana, tre confezioni di spalmabile possono durarmi 3-4 giorni.
E tra parentesi con la scusa del mangiare light inquino di più: il tutto perché un algoritmo mi autorizza a non moderarmi.
L’Italia non è inoltre l’unico Paese ad avere sollevato dei dubbi direi più che legittimi. Molti medici e nutrizionisti e alcuni panel di esperti hanno sollevato dubbi su simili sistemi di etichettatura. Perché anti-educativi e perché non dicono nulla su come è fatto un cibo.
Oggi, come è fatto un cibo è invece un argomento di primaria importanza, anche per l’impatto ambientale e non solo individuale.